La frescura delle lenzuola umide al mattino, il sole pallido a strisce dalla
tendina.
L’amica in salopette rossa e maglietta a righe blu e bianche.
Il sole le carezzava i capelli corti biondo miele, io stavo lì ad aiutarla,
tiravo su la coperta di montagna, la campagna era tutta intorno.
Il fumo non esisteva, l’unico era quello di legna che
usciva dai camini e che impregnava tutto, il bucato, i vestiti, che mi
entrava nelle narici già dal mattino e alla sera prima di cena.
Le foglie, quelle, bagnate e rosse, che tappezzavano il percorso del bosco. Io correvo e trovavo i funghi per sbaglio, ridevo, una scena come al
rallentatore che mostra il mio ridere un po’sgraziato, bambino, un ruzzolone
giù per la collina.
Lei mi spiegava, mentre riassettavamo la stanza, mi mostrava la copertina
cameo a strisce verticali bianche e nere, che bello era vedere quel profilo di
donna ed immaginarla mettersi il rimmel, adulta e irraggiungibile nel suo collo
di pelliccia.
Il bosco ci chiamava, ululava da dietro le case, lui la sera suonava con la
chitarra di legno così familiare per chimica e affinità.
Quella contadina, lei sì che c’era davvero, chinata sui campi, a mietere, a raccogliere,
a prendere uova nel fienile, a cucinare vicino alla stufa, ed io che non capivo
quell’odore strano e nuovo, di latte ed erba tagliata di fresco. Le mucche
passavano davanti a casa, le guardavo timorosa, i loro sguardi obliqui ed
indecifrabili mi spaventavano, correvo veloce in casa… ed il cane abbaiava,
sollecitato dal suo padrone, a volte mordeva le caviglie ai poveri animali mansueti.
Poi la donna grossa, anche lei c’era davvero, era la madre di una ragazzina,
pesante e sempre vestita con abiti a pois, si sedeva e parlava con mia madre e
mia nonna ed ascoltava Pierangelo Bertoli, mi prestava i libri. Lei ancora
ringrazio, per avermi prestato quel libro che mi segnò la vita ad 8 anni,
la prima lettura seria, la scrittrice si chiamava Oriana, come me. Ma lei, la
donna grossa, non volava, è scomparsa anni dopo, dopo l’ultimo parto e
l’ennesima storia infelice, è morta chissà come, le sue tracce perse nella
nebbia. Anche il marito, ho saputo, se n’è andato prima, una notte tardi o un mattino
presto, nel fiume che lo ha inghiottito.
I figli ancora peggio, e poi la ragazzina che vendeva il pane, Chiaretta, chissà come finita a bucarsi.. E quante vite
si sono fermate lì, in quegli anni, altre ne sono apparse, fra cui quella di
mio fratello Filippo, alla mia comunione celebrata lì, fra i boschi ed i prati, fra le
gimkane ed il ferragosto sui prati piani, con plaid e coperte a cantare “La Montanara”
e “Quel mazzolin di fiori”… e poi Guccini, Bennato, De Andrè, e tutti gli
altri.
Gli amici delle amiche più grandi, a suonare sapientemente le chitarre, ad
insegnarmi i cantautori, e il ragazzo dai riccioli biondi accanto, cuore in segreto, scritto di
nascosto sotto al cuscino.
Fogli e punti da segnare durante le partite a carte fra di noi, scala reale,
picche che non arrivavano mai, e quando arrivavano erano per me, lui perdeva e
mi sorrideva, fingeva dispiacere, leggevo amore. “Ero lì, nel mio candido
lettino, quando una voce mi chiamò… Francesco! Dico: Oh..” questo mi diceva
sempre, di questo mi parlava, della Genesi, poi leggevamo Topolino in silenzio
per pomeriggi interi e lo zio teologo ad accondiscendere divertito e
saggio, ecco, era lui il Frate di Francesco, lui che parlava in tedesco e in
latino, lui che ci raccontava le storie e mi diceva di non muovermi quando le
api si avvicinavano.
Ed i gatti, quelli, c’erano sempre, a mangiare gli avanzi del pranzo, a
lasciarsi addomesticare dopo giorni di paziente mio appostamento, così
come le coperte gelate la sera, ed i libri che odoravano di antico e di buono,
ed i fiorellini come le primule le genziane, ed i liquori, i monregalesi
fasciati in carta rossa. Ogni tanto spariva qualche mio amico cane, dicevano
che si era perso, loro sapevano che non era vero, lo avevano ucciso perché
troppo vecchio. Quante lacrime per Laika! Colore champagne, affogata con una
pietra.
Vita morbida e crudele, bambini che lavavano i piatti e facevano il bucato
con il sapone di Marsiglia ai lavatoi, con i catini portavamo i vestiti da
lavare, il sole brillava, era una festa.
Odoravo quella schiuma bianca e pura, mi entrava nell’anima, e lei danzava,
fra i colori e i raggi, l’acqua gelida che non sciacquava mai, i lamponi da
raccogliere lì vicino.
Le canzoni in cantoria, i nostri foglietti scritti a mano per le quelle da
cantare a messa, le prove delle sei del pomeriggio, il sole che pian piano
calava, le Graziella sulla ghiaia, i fienili che odoravano di legno e paglia.
Ciao, zia, allora eri il mio angelo, buonanotte fiorellino mi cantavi prima
di dormire, eri così dolce e goffa… una bimba più piccola di me.
Sei rimasta qui, dentro il petto, a metà tra il cuore e il respiro, la
neve si è sciolta e tu hai cambiato volto, sei cresciuta e gli anni ti hanno
resa diversa. Ma quei posti esistono sempre, come te, come l’amica in salopette rossa, come gli
altri che sono rimasti, cresciuti, e che sono inevitabilmente cambiati.
Così vi
ricordo, senza più età né collocazione, a metà tra il passato remoto ed una
indefinitezza verbale.